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I fatti di Avola
2 dicembre 1968: lo sciopero contro le gabbie salariali nel siracusano trasformato dalla polizia in una caccia a uomini disarmati
«Che cosa è successo? Câè stato un gran dispiacere perché non erano morte delle bestie, ma erano stati uccisi dei compagni.»
(Dalla testimonianza resa da un anziano operaio agricolo il 3 dicembre 1968 allâinviato di "Lotte agrarie", periodico della Federbraccianti-Cgil.)
Eâ lâItalia del â68, scossa dalle manifestazioni degli studenti, alla vigilia di unâimponente stagione di lotte operaie. Ma è anche lâItalia dove la destra cerca e innesca provocazioni proprio per bloccare un sempre più esteso e incontrollabile movimento di masse giovanili e operaie. Eâ lâItalia del dimissionario governo balneare di Giovanni Leone (in cui Franco Restivo è ministro dellâInterno).
Si prepara il primo governo di centrosinistra di Rumor e Nenni mentre il socialista Sandro Pertini è stato appena eletto presidente della Camera. E, nellâappendice di questa Italia, i trentaduemila braccianti della provincia di Siracusa sono impegnati da molte settimane (ma chi lo sa? chi ne scrive?) in una durissima vertenza con unâagraria tra le più ricche, le più potenti ma anche le più intransigenti del Mezzogiorno. Non è una vertenza qualsiasi. Intanto per la duplice posta, di evidente valenza: la parificazione delle zone salariali dellâagrumeto e dellâortofrutta (una sottospecie delle famigerate "gabbie"), e la fine del mercato delle braccia che ha i suoi sfacciati, liberi centri di contrattazione nelle piazze di tutta la provincia e persino nel cuore della città dâAretusa, in piazza Stesicoro. E poi perché si sa che una vittoria (o una sconfitta) nelle campagne di Siracusa non solo sarebbe decisiva per quella lotta di quei braccianti, ma farebbe da traino (o da freno) alle analoghe vertenze aperte nelle altre zone dellâIsola: dallâaltrettanto ricca piana catanese alle più povere province dellâinterno, dove vegetano altri agrari, parassiti.
Per la vertenza di Siracusa si è ormai alle strette. Dopo tre settimane di sciopero, i risparmi degli operai agricoli sono agli sgoccioli. Aranci e limoni marciscono sugli alberi.
Le serre sono da troppo tempo prive del riscaldamento necessario per far maturare i primaticci. Alle porte di Avola, lungo lo stradone che da Cassibile (proprio in un agrumeto di quel paese fu firmato il 3 settembre del â43 lâarmistizio che sanciva la resa incondizionata dellâItalia alle potenze alleate) porta a Ragusa, câè un bivio per Marina di Avola.
Lì, il pomeriggio di venerdì 29 novembre, un centinaio di braccianti sta seduto in terra, blocca la strada. Il sindaco socialista di Avola Giuseppe Denaro, il deputato comunista Nino Piscitello, il pretore Cassata, il segretario della Federbraccianti siracusana Orazio Agosta convincono gli scioperanti a sospendere il blocco. Andranno loro, anzi torneranno loro, per lâennesima volta, dal prefetto DâUrso perché si decida a convocare nuove, immediate trattative. Seppur poco convinti, i braccianti vanno a casa.
Ma il prefetto, ottenuto lo sgombero, rinvia la convocazione delle parti allâindomani: «Sono stanco», fa dire e se ne va a casa. E lâindomani gli agrari non si presentano. Il prefetto ne giustificherà lâassenza prendendo per buono, e facendo proprio, un pretesto impudente: «Che volete farci? Questi blocchi stradali a intermittenza impediscono ai proprietari - chi viene da una parte e chi dallâaltra - di riunirsi e di preparare le controproposte». E allora nuovo rinvio dellâincontro, prima a martedì poi, dal momento che la tensione cresce di ora in ora, lâanticipo alla sera di domenica, quando però in rappresentanza dei padroni si presenta solo un funzionario privo di qualsiasi potere di trattare e men che mai di firmare un eventuale, comunque improbabile accordo. Piscitello tempesta di telefonate la presidenza della Regione a Palermo, e soprattutto i ministri del Lavoro e degli Interni a Roma dove figuriamoci se, a crisi aperta, câè qualcuno che ha tempo da perdere dietro alla vertenza dei braccianti di una lontana provincia.
«Costi quel che costi»
Così lunedì 2 dicembre è inevitabile che nel siracusano sia proclamato lo sciopero generale, in appoggio ai braccianti. Tutto chiuso in città, tutto fermo in provincia.
Già allâalba, al solito bivio di Avola, câè di nuovo raduno di braccianti, ben più grosso stavolta: sono almeno in cinquemila. Molti stanno seduti in strada, altri mangiano pane e formaggio nelle campagne intorno o sui muri a secco che dividono agrumeti e mandorleti. Racconterà il sindaco Denaro: «Il prefetto DâUrso mi aveva telefonato alle otto del mattino.
Un vero e proprio avvertimento: il blocco di Avola deve sparire, i braccianti devono andarsene, costi quel che costi». Eâ minaccia aperta, frutto non solo dellâarroganza di un funzionario (che pure rappresenta il potere centrale) ma certo anche di pressioni degli agrari su quello stesso governo sordo da settimane ai richiami sempre più allarmati di sindacati e partiti di sinistra. I braccianti non se ne vanno? E allora che siano fatti sloggiare, «costi quel che costi» come ha intimato il prefetto.
Detto e fatto: alla due del pomeriggio sei furgoni e alcune camionette della Celere scaricano al bivio di Avola novanta agenti, unâavanguardia di quel famigerato battaglione speciale di stanza a Catania che costituisce la forza dâurto sempre allâerta per le imprese peggiori (come quella del luglio â60, proprio nella città dellâEtna, dopo i morti di Reggio Emilia, Palermo, Licata). Il vicequestore Camperisi è pronto a dare lâordine di sgombero. Il sindaco telefona al prefetto gridando: «Che la polizia non faccia sciocchezze! Qui stanno arrivando anche donne e bambini!». Per tutta risposta DâUrso intima a Denaro di indossare la fascia tricolore: «Lei pensi piuttosto a collaborare con la polizia! ».
Gli agenti sono già con gli elmetti, pronti a inastare i lacrimogeni sulle canne dei moschetti. Deciso a forzare il blocco con la violenza, e prevedendo la legittima reazione dei braccianti, il vicequestore Camperisi dispone persino che sia creata una trincea per lâimminente battaglia: un commando di poliziotti pone di traverso sullo stradone una betoniera. Il blocco, quello vero, ormai lâha fatto la Celere. Ed è il via alla provocazione. I tradizionali squilli di tromba non valgono come usuale avvertimento: sono il segnale di dare il via allâaggressione senza perdere altro tempo.
Da dietro la betoniera partono a grappoli le bombe lacrimogene: dieci, venti, cinquanta.
I braccianti, colti di sorpresa, fuggono per le campagne a ripararsi dai fumi.
Ma presto si accorgono che non câè bisogno di mettersi al riparo: il vento rispedisce al mittente i gas mettendo nei guai gli agenti, e rendendo furibondi ufficiali e vicequestore. Un lacrimogeno però esplode tra alcuni braccianti, colpendone uno.
Esasperati, i suoi compagni si difendono come possono, scardinano i muretti e ne scagliano le pietre sulla strada per impedire almeno i forsennati caroselli che le camionette hanno cominciato a fare per creare panico. Allora via radio il vicequestore Camperisi chiede immediati rinforzi. Tempo mezzâora, da dietro un curvone alle spalle dei braccianti sbuca un altro centinaio di poliziotti, tutti armati sino ai denti come quelli che già fronteggiano gli scioperanti.
«Li stiamo ammazzando»
Ormai è guerra. Gli operai sono presi letteralmente tra due fuochi. Vomitano piombo di fronte a loro e alle loro spalle i mitra Beretta, i moschetti, e le pistole di almeno due calibri diversi, il 9 e il 7,65. Colpi a raffica, centinaia di proiettili: lâindomani Nino Piscitello scaricherà alla Camera due chili e mezzo di bossoli. Sono colpi precisi, diretti con cura ad alzo zero da quando un ufficiale - per dare lâesempio ad agenti esitanti - ha strappato di mano il moschetto ad un graduato ed ha sparato dritto contro un gruppo che tentava di ripararsi dietro un muretto.
Paolo Caldarella alza una mano in segno di tregua: un colpo gliela trapasserà . Poi cade Giorgio Garofalo: una fucilata gli ha forato in otto punti le anse intestinali (si salverà grazie a tre operazioni).
Unâaltra fucilata spezza un femore ad Antonino Gianò. E Sebastiano Agostino è colpito al petto poco lontano da Orazio Agosta.
Quando non sono i moschetti e i mitra a farlo, sono le pistolettate che feriscono gravemente Giuseppe Buscemi, Paolo Caldarella, Rosario Migneco, Orazio Di Natale.
Eâ un crescendo di violenza selvaggia, talmente insensata che a notte, allâospedale di Siracusa, un agente colpito alla testa da una pietra continuerà per ore a gridare nel delirio: «Comandante! Comandante! Eâ unâinfamia... Eâ il tiro al bersaglio... Lasci stare la pistola! Così li stiamo ammazzando!».
E infatti due braccianti moriranno tra atroci sofferenze.
Così viene ucciso Angelo Sigona, 25 anni da Cassibile: inseguito, braccato tra gli alberi, fucilato davanti ad un muretto. Raccolto in un lago di sangue da due compagni, non basteranno a salvarlo due interventi, prima allâospedale di Noto e poi a quello di Siracusa. Così è ammazzato anche Giuseppe Scibilia, 47 anni da Avola, pure lui inseguito a trecento metri dal luogo degli scontri e centrato al petto. Non si saprà mai se ad ucciderlo sia stato quellâufficiale visto da tutti (ma da nessuno identificato) mentre gridava ai suoi uomini che gli passassero i caricatori per il suo personale, allucinante western. Forse è lui il "comandante" citato nel delirio dallâagente ferito.
O forse no, perché in effetti, come racconterà più tardi Orazio Agosta, «tutti, ma proprio tutti, sparavano.
Ho visto poliziotti sparare anche contro i serbatoi delle motociclette dei braccianti perché prendessero fuoco e provocassero ancor più casino ». Venticinque minuti dureranno sparatorie e incendi e caroselli: da un lato duecento armi, dallâaltro mille pietre. Da un lato, tra i braccianti, due morti e una diecina di feriti gravi; dallâaltro, tra i poliziotti, quattro contusi ed un ferito, quello che nel delirio avrebbe confermato tutto lâorrore dellâimpresa.
Fulminea, la notizia della tragedia scuote lâItalia intera.
Immediata la proclamazione per lâindomani di uno sciopero generale dei braccianti in tutto il Paese e di tutti i lavoratori in Sicilia. Non câè bisogno di direttive: già nella stessa serata dellâeccidio ci sono state le prime manifestazioni di protesta.
Grande è lâimbarazzo nel governo dimissionario e soprattutto tra quanti lavorano - tra difficoltà di opposta natura - alla costituzione del governo di centrosinistra. E ancor più grande è lâirritazione, tra i socialisti, quando in un primo momento la presidenza del Consiglio prova a far ricadere sui braccianti la responsabilità dellâeccidio: ovvio, sassaiola dei lavoratori in sciopero e legittima reazione di «alcuni agenti» che «trovatisi isolati, di loro iniziativa hanno fatto uso delle armi». Eâ la tesi fatta accreditare ufficialmente nel telegiornale della sera, e che non spiega la gravità degli eventi.
Sono davvero soltanto di "alcuni agenti" i chili di bossoli raccolti sul luogo della battaglia? E poi: il fuoco non è stato aperto su lavoratori che stavano avendo la meglio sulla polizia ma su centinaia di persone disarmate e in fuga disperata per i campi. Insomma, se pure non câè stato un ordine specifico (ma non è inteso così quello sconsiderato «sgomberare, costi quel che costi» intimato dal prefetto?), evidente era la volontà - denunciano i sindacati - di dare una lezione ai braccianti, di far loro pagare una lunga vertenza.
La "grana" di Avola
Lâirritazione in casa socialista ha anche un altro motivo: Aldo Moro ha già fatto sapere che la Dc non intende rinunciare agli Interni (che resteranno in sua mano, ininterrottamente, sin dopo Tangentopoli) e meno che mai è disposta a dimissionare Franco Restivo in seguito alla "grana di Avola", come lâha subito definita il giornale più autorevole di unâinquieta borghesia e di un padronato reso ancor più inquieto dalle avvisaglie dellâaccordo Dc-Psi. Comunque, o proprio per questo, dura poco, molto poco, il tentativo così grossolano e tanto insostenibile di cambiare le carte in tavola. Giocano molti fattori ad imporre un intervento più realistico del Viminale e del ministro Restivo in persona: la proclamazione dello sciopero generale, la preoccupazione evidente di non aggravare la tensione già altissima, un avvertimento di Sandro Pertini (discreto ma energico, comâè suo costume, ed autorevolissimo ché presiede la Camera) che anche i socialisti non intenderanno mettere il bollo su pretestuose giustificazioni, la durissima reazione dellâopposizione di sinistra che reclama la convocazione straordinaria del Parlamento.
E allora, qualche minuto dopo le dieci di sera di quello stesso 2 dicembre, uno scarno ma inequivoco comunicato del Viminale smentisce la prima, più avventata versione: salta il questore di Siracusa Politi, rimosso dal ministro Restivo e collocato a disposizione proprio «in relazione ai luttuosi fatti di Avola». Bene, ma perché solo lui e non anche il vicequestore Camperisi che ha guidato la repressione? E perché solo il questore e non anche il prefetto DâUrso che è stato lâalleato costante degli agrari e che, con quella sua telefonata al sindaco di Avola, ha anticipato la determinazione di soffocare ad ogni costo la lotta dei braccianti? Allâannuncio della rimozione del questore, Leone e Restivo fanno poi seguire una nota ufficiosa non solo per esprimere «il più profondo dolore per lâaccaduto» ma anche per manifestare «il fermo intendimento di fare piena luce sugli avvenimenti ». La luce non sarà mai fatta, e gli interrogativi resteranno senza risposta.
Ma lâeccidio non resterà senza conseguenze. Lâindignazione è così generale, le preoccupazioni talmente diffuse, la pressione delle confederazioni sindacali tanto forte, lâallarme nel padronato così evidente che da Roma parte lâordine della Confagricoltura di tornare a trattare. Così, proprio mentre ancora è in corso lo sciopero generale e si preparano i funerali di Scibilia e Sigona, a Siracusa si riprendono - in pratica si aprono - le trattative sempre rifiutate o rinviate dagli agrari. Si tratta ad oltranza, con lâintervento dei segretari confederali di Cgil, Cisl e Uil. Quindici ore ci vogliono per piegare le resistenze padronali, e alla fine lâaccordo segnerà lâabolizione delle differenze salariali tra le due zone, lâaumento delle paghe, la rinuncia al mercato delle braccia (anche se tanto tempo dopo si ricomincerà , e stavolta saranno gli extracomunitari a patirne le conseguenze). Ma câè anche e soprattutto un punto fermo: Avola diverrà la scintilla di una stagione politica che, comunque la si riguardi a tanti anni di distanza, porrà fine allâintervento della polizia nei conflitti sindacali. Un intervento che dal â47 ad allora aveva provocato quasi cento morti. Un elenco chiuso, appunto, dai nomi di Giuseppe Scibilia e di Angelo Sigona